MINAMISANRIKU - La città scomparsa dovrebbe
essere qui sotto. Nessuno si rassegna a crederci, ma è così. I piedi affondano
in un pantano nero, impastato di sabbia, di petrolio, di acqua salata, di travi
in cemento e di pesci coperti da insetti.
Potrebbe essere uno stagno che
si sta prosciugando, percorso da odori adesivi, usato come discarica. Invece si
calpesta Minamisanriku e non si vorrebbe, temendo di fare male a qualcuno. Pochi
soccorritori sono arrivati qui e la prima volta se ne sono andati, convinti che
il porto peschereccio abitato fino a venerdì da diciassette mila persone si
trovasse altrove. Sono tornati oggi, spinti dai sopravvissuti del posto e dal
Gps e adesso non hanno dubbi. Questo deserto coperto ora dai gabbiani, da cui
affiora una gamba piegata, si apre dall'oceano verso l'interno per nove
chilometri.
Il livello del Pacifico che si è trasferito sopra la costa
nord - est dell'isola di Honshu, resta alto per almeno due chilometri. Non una
barca si è salvata, la spiaggia è attraversata da sabbie mobili e nessuno va a
recuperare quell'arto, divenuto il segnale della catastrofe. Qui sorgevano
migliaia di edifici, la darsena, strade, scuole e un piccolo ospedale. Se
davvero Minamisanriku è questo, non c'è speranza. Da tre giorni non c'è traccia
di almeno metà della popolazione. Diecimila abitanti sono scomparsi in pochi
minuti, travolti dalla prima, grande onda scatenata dal sisma.
Dopo 72
ore si possono trovare persone vive sotto le macerie di un terremoto,
non sotto il fango di uno tsunami. Chi si è salvato, nei
quartieri in collina, è accampato per strada e guarda l'impressionante scia
orizzontale, simile a quella verticale aperta da una valanga. Il livello del
terreno si è abbassato e l'impressione è che ora sia inferiore a quello del
mare. E per questo che Minamisanriku è stata spazzata via e che gli aiuti non
sono ancora arrivati. Le strade sono interrotte, tutto deve essere trasportato a
mano. Manca cibo, non c'è acqua potabile, la corrente elettrica è sospesa. Non
si può nemmeno fuggire: le pompe, tre chilometri all'interno, non funzionano e
il carburante è esaurito. Questa città inghiottita è l'ultimo simbolo della
catastrofe che s'è abbattuta sulle prefetture orientali di Miyagi, Iwate e
Fukushima, a nord di Tokyo. Si comincia però a prendere atto con orrore che è
solo una delle tante, uno tra i centinaia di luoghi del Giappone che non c'è
più. Dopo un giorno in viaggio lungo la costa inghiottita dall'oceano, ormai
deserta e muta, non ha senso tentare di contare i morti e i
dispersi.
Diecimila? Il doppio? La popolazione sostiene che anche
trentamila risulteranno pochi. Più rapido contare i superstiti e i feriti e
sperare che molti siano riusciti a scappare all'interno e che non riescano ora a
dare l'annuncio della loro salvezza. "Quando è finita la grande scossa - dice
Natsuo Kawabata, avvocato a Minamisanriku - mi sono precipitato verso casa. Ho
visto una trentina di auto in colonna, che acceleravano sulla strada. Alle loro
spalle saliva l'onda. L'acqua si avvicinava, travolgeva le case e le auto
acceleravano ancora. Una dopo l'altra, in mezzo minuto, sono state inghiottite
tutte. Nella quarta c'erano mia moglie e mio figlio Hojo di 7 anni. Era al
telefono con me è gridava "è fatta, siamo salvi"". Se una parte dell'Honshu non
esiste più lo si deve anche alla straordinaria qualità delle costruzioni
antisismiche, che hanno tradito gli abitanti. Dopo la scossa delle 14.46,
l'assenza di crolli ha indotto la gente a illudersi di aver subìto un evento
straordinario, ma non distruttivo. L'allarme tsunami è stato lanciato nove
minuti più tardi, diciannove prima che l'oceano si alzasse di venti metri sopra
la costa. L'onda si è abbattuta su una popolazione riversata per strada, che
stava cercando di capire cosa fosse successo, nell'impossibilità di seguire gli
appelli alla fuga lanciati in tivù, spenta dall'interruzione della corrente
elettrica. La maggioranza ha ignorato il pericolo del Pacifico, o ne ha
sottovalutato la velocità, venendo strappata via con l'elmetto d'emergenza sul
capo.
E' questo eccesso di sicurezza nella tecnologia, l'abitudine alla
compagnia di una terra qui in costante movimento, ad aver potenziato l'effetto
del peggior terremoto della storia nazionale. Percorrendo i quattrocento
chilometri della costa inabissata, rimasti in gran parte privi di soccorsi a
causa dell'emergenza radiottiva nella centrale di Fukushima, ci si rende conto
così che il peggio potrebbe non essere stato ancora scoperto. Sendai, il
capoluogo della prefettura di Miyagi, oltre un milioni di abitanti, resta
sommerso dall'acqua ancora per metà. Sono migliaia gli edifici distrutti, gli
evacuati da tre giorni non mangiano e non bevono, l'aria della notte scende a
quattro gradi sotto zero e solo pochi possono ripararsi con una coperta
asciutta. "Ci mancano farmaci essenziali e sangue - dice Mikiko Dotsu, capo
squadra di medici senza frontiere - e l'assenza di energia impedisce di operare.
Centinaia di persone, in particolare i bambini e i vecchi, devono essere portate
via di qui al più presto, con gli elicotteri, o sulle navi". La scuola
elementare di Natori è adibita a obitorio: all'interno, non coperti da lenzuoli,
centinaia di corpi, forse mille. In un angolo vengono riposte le salme
irriconoscibili, i resti considerati umani. Più si risale a nord, dal cuore
dell'epicentro, è più lo scenario assume realmente il profilo di una non
narrabile apocalisse. Anche la città marinara di Matsushima aveva
diciassettemila residenti. E' ridotta ad un villaggio di poche case naviganti
nel mare e del grande mercato del pesce non c'è traccia. Gli abitanti, sotto
shock, raccontano che lo tsunami dell'11 marzo passerà però alla storia per aver
sottratto al mondo l'arcipelago di Matsushima Kaigan.
Erano 260 piccole
isole, decine di penisole verdi tuffate nel Pacifico, tra gli scenari naturali
più stupefacenti del Giappone. Rocce nere, torri di tufo, sabbia come neve,
sorgenti di acqua bollente, borghi antici e una miriade di templi buddisti e
scintoisti invasi dalla pace. Dalla costa oltre Sendai occorreva un'ora di barca
per entrare nel paradiso delle scimmie e dei cervi, popolato di oltre
duecentomila persone. Dalla terraferma non si scorgono più isole e i pescatori
assicurano che l'arcipelago è stato sommerso. A Ishinomaki, sull'isola di
Miyato, abitano 166 mila persone, di cui non si ha notizia. Metà della città
risulta distrutta. I pescatori dell'isola di Kinkazan, il "fiore d'oro"
dell'Honshu, non trovano più decine di altre isole, rimaste sotto il livello del
mare. Il censimento del disastro è ostacolato dalla distruzione dei porti e di
migliaia di imbarcazioni. L'arcipelago di Matsushima è totalmente isolato da
venerdì e anche il laboratorio marino dell'università di Tuhoku, nella città di
Onagawa, non dà segni di vita. Di certo la penisola di Ojika, l'isola di Oshima
e Fukuura, si trovano oggi sotto il livello dell'acqua ed è impossibile sapere
quanti siano riusciti a mettersi in salvo, come abbiano potuto riuscirci. Le
isole hanno fatto da frangiflutti contro la forza del mare, proteggendo un
tratto di terraferma, ma autocondannandosi a scomparire.
Lungo la costa,
che si presenta oggi come un luogo naturale totalmente cambiato e
irriconoscibile, sono però migliaia gli edifici crollati anche a Shiogama, 59
mila residenti e il più grande mercato del pesce della prefettura di Miyagi.
Centinaia di persone mancano a Iwanuma, dove la gente resta accampata sui tetti.
A Rikuzentakata, nella prefettura di Iwate, sabato si segnalavano quattrocento
corpi restituiti dallo tsunami. Le squadre di soccorritori, giunte da Taiwan,
affermano che nella spianata di fango ce ne potrebbero essere almeno
altrettanti. A Rikuzen Takata, cittadina di ventottomila persone, gli edifici
demoliti dallo tsunami sono oltre ottomila. Centinaia più a sud, a Minami Soma.
La realtà che un Giappone stremato non vuole ancora accettare è l'uscita dallo
tsunami con una mutilazione profonda e devastante. Tra la capitale e Kesennuma,
apice nord estremo della devastazione, centinaia di centri abitati non esistono
più. I porti distrutti sono decine, migliaia di imbarcazioni bruciate e
affondate. La pesca rappresenta il 15% del pil nazionale e i danni economici si
profilano immensi. In questa fascia di terra scossa, in gran parte
impercorribile in auto e non raggiunta dalla macchina dei soccorsi, si aggirano
ora oltre 300 mila sfollati, alla disperata ricerca di un numero imprecisato di
morti e di dispersi. La maggioranza della popolazione, poco meno di tre milioni
di individui, ha perduto tutto e lotta per trovare acqua, cibo e qualcosa con
cui difendersi dal freddo. Gli aiuti sono lenti e insufficienti: 100 mila uomini
si perdono in un deserto di macerie e rischiano di trasformarsi a loro volta in
profughi.
Solo oggi iniziano a delinearsi i contorni di una tragedia che
nelle prime ore, dopo la scossa da 9 gradi della scala Richter, era sembrata
miracolosamente scongiurata. Si è detto che solo il Giappone poteva resistere ad
un simile squasso: stiamo scoprendo che non è andata così, che nemmeno il Sol
Levante è stato più forte di una natura che si illudeva di aver sottomesso.
"L'onda saliva - dice Yukio Hokusai, sopravvissuto di Rikuzen Takata - e il
primo piano di casa è stato allagato. Siamo usciti sul tetto e anche i nostri
vicini, nell'edificio a fianco, erano lassù. Un cantiere impediva al fango di
scorrere e la montagna di melma saliva. Ho visto la famiglia Endo sparire in un
gorgo nero, mentre il figlio più piccolo si aggrappava all'antenna satellitare".
Di tutto questo, assieme al dolore, nel Nordest del Giappone resta solo la
paura: di un'altra, definitiva scossa, di una contaminazione nucleare più alta
di 400 volte rispetto al normale, dell'abbandono, di essere rimasti senza
futuro. Nel pomeriggio al largo di Ebina ha attraccato la portaerei Usa "Ronald
Reagan". I marines che distribuiscono razioni di pane e di riso a chi si prepara
per la terza notte all'addiaccio, hanno la maschera sul viso. I sopravvissuti si
inchinano, ringraziano e subito si coprono la bocca con la mano.